ASSEGNO DI DIVORZIO, SENZA “TENORE DI VITA” SI PERDE L’UGUAGLIANZA

Pubblicato da il 10 novembre, 2017

La prima sezione della Cassazione si è assunta la responsabilità di ribaltare l’orientamento seguito dalla giurisprudenza da quasi trent’anni (Cassazione civile, sezioni Unite, 29 novembre 1990 n. 11490, anche avallato da Corte costituzionale 11 febbraio 2015 n. 11) secondo cui il diritto all’assegno divorzile è dovuto quando il coniuge che lo richiede non ha “mezzi adeguati ” (articolo 5, comma 6, della legge 898/1970) a mantenere tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale . Secondo la diversa interpretazione inaugurata da Cassazione civile, sezione I, 10 maggio 2017 n. 11504 il criterio attributivo e giustificativo dell’assegno divorzile dovrebbe essere quello dell’autosufficienza economica del coniuge richiedente, con la conseguente espulsione di qualunque elemento di raccordo con il matrimonio . Gli stessi principi sono stati ripresi da Cassazione civile sezione I, 22 giugno 2017 n. 15481 (con cui si afferma che la nuova interpretazione può essere utilizzata in un procedimento di modifica delle condizioni di divorzio) e poco dopo anche da Cassazione civile, sezione VI, 1-29 agosto 2017 n. 20525.

Nonostante la richiesta da più parti avanzata (anche dal Procuratore generale all’udienza) di rimettere la questione alle sezioni Unite per una verifica della plausibilità giuridica di una così evidente “questione di particolare importanza” (articolo 374, secondo comma, del Cpc) – soprattutto per i suoi incommensurabili riflessi sulla concezione del matrimonio e sulle ricadute sociali – i giudici della prima sezione hanno deciso di smantellare da soli uno dei principi fondamentali del nostro diritto di famiglia. Al criterio attributivo del diritto all’assegno che fa leva sulle modalità di vita che i coniugi hanno scelto e accettato nella vita matrimoniale, viene sostituito quello dell’indipendenza economica (autoresponsabilità), mentre soltanto in fase di eventuale quantificazione sarà possibile la valutazione e il recupero degli aspetti solidaristici e compensativi dell’assegno rispetto al contributo dato da ciascun coniuge alla vita matrimoniale (contributo che l’articolo 143 del Cc, considera equivalente sia quando si esprime nel lavoro professionale, sia quando si realizza come lavoro casalingo e di cura della famiglie e dei figli).

La conseguenza di questa nuova interpretazione (che ignora totalmente le conseguenze sociali della divisione asimmetrica del lavoro nella famiglia) è che il coniuge il quale al momento del divorzio abbia (fortunatamente) anche un modesto reddito da lavoro (secondo il tribunale di Milano sarebbero sufficienti 1.000 euro al mese) non avrà mai diritto all’assegno divorzile, ancorché nel corso del matrimonio si sia, anche per scelta comune, sacrificato per la famiglia, per i figli e per l’altro coniuge, il quale, liberato dalle mansioni domestiche, ha magari potuto raggiungere una completa soddisfazione delle proprie aspirazioni professionali. Il principio di uguaglianza del lavoro casalingo e professionale (articolo 143 del Cc) viene neutralizzato al momento del divorzio, in un gioco al massacro dei principi di parità tra coniugi proclamati nell’articolo 29 della Costituzione che non viene menzionato nemmeno una volta nella sentenza n. 11504/2017. La sentenza costituisce quindi un vero e proprio attacco all’istituto del matrimonio la cui dissolubilità viene confusa con l’annullamento retroattivo del vincolo.

Se la solidarietà che è alla base dei legami familiari e coniugali ha rilevanza giuridica, questo deve avvenire necessariamente sempre sia in fase di valutazione del diritto all’assegno che in fase di quantificazione. Era questa l’intuizione logica e ragionevole a fondamento della posizione delle sezioni Unite del 1990.

Una tempestiva proposta di legge (atto n. 4605/C del 27 luglio 2017) ha reagito a questo orientamento, proponendo un nuovo testo dell’articolo 5 della legge 898/70 nel quale si stabilisce che l’assegno divorzile è «destinato a compensare le disparità che il divorzio crea nelle condizioni di vita dei coniugi ».

Il divorzio in Italia interviene in media dopo il compimento dei 48 anni per gli uomini e dei 45 anni per donne. Nel 40% delle separazioni (oltre 41.000 coppie) è previsto un assegno per la moglie, solo per lei o anche per i figli che nella stragrande maggioranza dei casi rimangono con la madre dopo la separazione. Si tratta di percentuali abbastanza stabili nel tempo che non hanno subito negli ultimi anni variazioni di rilievo. La donna che, in prime nozze, si separa lo fa dopo un periodo medio di 17 anni e dopo un matrimonio vissuto tra i 32 e i 45 anni. Non esistono statistiche precise sull’entità degli eventuali redditi a disposizione delle 41.000 donne che ogni anno si separano e alle quali viene riconosciuto l’assegno di mantenimento. Può trattarsi di donne che non hanno alcun reddito o di donne che pur avendo mezzi economici lì hanno di entità tale da non poter garantire il godimento del pregresso tenore di vita. Pertanto non è possibile stimare con sufficiente attendibilità il numero di donne che potrebbero vedersi confermato o meno in sede di divorzio l’assegno.

Il tasso di occupazione femminile in Italia (46%: ma 56% al Nord e 30% al Sud) è più basso di quello dell’uomo e sussistono differenze rilevanti di salario e stipendio tra uomini e donne. Il tasso di occupazione femminile in Europa è più alto raggiungendo mediamente il 60 per cento.

Nell’orientamento seguito da trent’anni dalla giurisprudenza la funzione di valorizzazione del contributo dato dai coniugi alla vita matrimoniale è assolta dal criterio di riconoscimento del diritto all’assegno collegato al pregresso tenore di vita, proprio perché le condizioni e il tenore di vita che due coniugi hanno avuto nel matrimonio sono strettamente dipendenti dal « contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune».

Perciò, il riferimento al pregresso tenore di vita (cioè alle pregresse condizioni di vita della famiglia) quale presupposto per l’attribuzione dell’assegno (di separazione e di divorzio) contiene in sé oggettivamente una carica compensativa che non può essere eliminata e che, infatti, la stessa prima sezione della Cassazione dichiara di voler confermare non solo per la separazione (Cassazione civile, sezione, I, 16 maggio 2017 n. 12196) ma anche per le operazioni di quantificazione. La famiglia ha potuto godere di un certo tenore di vita perché entrambi lo hanno reso possibile con il loro contributo e sacrificio personale, professionale o casalingo. Le opportunità di cui la famiglia si è avvantaggiata derivano anche dalla divisione del lavoro che i coniugi hanno concordato o accettato. In tanto il lavoro professionale di un coniuge ha potuto garantire un particolare assetto economico in quanto magari il lavoro dell’altro, che si è dedicato (solo o di più) alla casa e ai figli, ha reso possibile quell’assetto.

La circostanza che vi possano essere situazioni di ingiustizia generate dall’approfittamento da parte di un coniuge delle fortune dell’altro è un fatto che può e deve trovare ristoro in sede di quantificazione dell’assegno (“fino ad azzerarlo” come ha sempre riconosciuto la giurisprudenza) ma non un motivo per cancellare il riferimento alle condizioni di vita nel corso del matrimonio in sede di attribuzione del diritto all’assegno. Il riferimento alle pregresse condizioni di vita è l’unico criterio capace di garantire un punto di partenza equilibrato per decidere l’assetto economico post-matrimoniale. Non ve ne possono essere altri.